La programmazione orientata agli oggetti, il cui acronimo inglese OOP avrete già visto scritto decine di volte sulle riviste di informatica, è un modello di programmazione che permette al programmatore di definire degli oggetti software in grado di comunicare tra di loro, attraverso uno scambio articolato di messaggi. Se eseguiamo un’astrazione di ciò che abbiamo appena letto, e guardiamo nel nostro mondo reale, notiamo una certa similitudine. Tutto ciò di cui noi disponiamo nel mondo reale può essere equiparato ad un oggetto. Ogni oggetto che noi possiamo definire ha un insieme di caratteristiche: di forma, di dimensione, fisiche, chimiche e uno o più metodi di utilizzo.
Per spiegarmi meglio facciamo due esempi pratici. Un bicchiere è un oggetto che può essere di vetro o di plastica, può avere forme differenti e colori diversi tra loro, può essere vuoto, pieno, riempito a metà e può contenere acqua, vino, aranciata o qualsiasi altro fluido, ma rimarrà sempre un bicchiere. E una tazza? Ecco che abbiamo sollevato un vespaio! Una tazza è simile ad un bicchiere, ma per via della sua forma peculiare e del suo prevalente utilizzo non può appartenere alla classe dei bicchieri, però potrebbe essere un nuovo oggetto del programma che è nato estendendo una classe che ha generato entrambi: la classe dei recipienti.
E tutto questo cosa c’entra con la OOP? Questi sono soltanto due piccoli e semplicissimi esempi di cosa si può creare con la OOP, in particolare con un linguaggio di programmazione orientato agli oggetti, come ad esempio Java™ della SUN™.
Grazie a questo paradigma, il programmatore Java potrà creare più oggetti della stessa classe, o appartenenti a classi diverse, senza confonderli tra di loro, usarli nel modo che più servono allo scopo del programma, facendoli interagire con basi dati, input esterni da tastiera, mouse o altri dispositivi, o anche tra di loro e poi, una volta che il loro compito sarà esaurito, potrà disfarsene, liberando preziose risorse di memoria per un funzionamento ottimale del PC.
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